Lettera al Direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno”
Egregio Direttore,
alla luce dell’articolo di Antonio Dell’Atti “Nessun regalo alle banche, solo sana economia”, a beneficio di tutti i lettori pugliesi, ci preme chiarire qual è la reale situazione del Decreto IMU-Bankitalia. Innanzitutto, nelle società private (SpA-Srl), il valore delle quote di mercato è stabilito dal patrimonio netto, rappresentato dal capitale sociale e dalle riserve. Le riserve sono generalmente costituite da accantonamenti di utili non distribuiti. Dal valore del patrimonio netto dipende la redditività attesa della società e, quindi, il valore di mercato della partecipazione al capitale. Trattare Bankitalia come se fosse una normalissima impresa che costituisce riserve al fine di autofinanziarsi non solo è sbagliato, ma chi insiste a sostenere questa tesi, oltre a fare la lezioncina da quattro soldi, è in malafede se non dice come si producono gli utili in una normale impresa, i rischi correlati a tale attività commerciale e il modo con cui Bankitalia (istituto di diritto pubblico) ha costituito le sue riserve tra cui anche quella aurea.
Vale la pena ricordare che la Banca d’Italia è un ente di diritto pubblico dal 1936 e tale è rimasta anche dopo la privatizzazione delle banche dei primi anni ’90. In tutti i Paesi, le banche centrali hanno il monopolio della creazione della moneta, il che fornisce loro risorse denominate con il termine di “signoraggio”.
Fino a prima dell’emanazione del decreto, non essendo le quote di Bankitalia commerciabili, il valore nominale delle stesse era rimasto arbitrario. Dato che le banche centrali hanno il monopolio della produzione di moneta (solo esse producono signoraggio) per mantenere la gran parte degli introiti di tale attività al Tesoro il valore nominale del capitale sociale di Bankitalia era stato mantenuto a soli 156.000 euro, tenuto conto che vi era un limite del 4% ai dividendi pagabili ai “soci” fondatori (non più di 4% delle riserve). Anche il controllo della governance della Banca d’Italia era di fatto e sostanzialmente lasciato a Tesoro e Parlamento, i “soci”: anche se partecipavano formalmente a definire i soggetti che controllavano e vigilavano sulla gestione amministrativa della banca, non avevano voce in capitolo nella definizione delle funzioni istituzionali della Banca.
Insomma, i “soci” fondatori di Banca d’Italia, fino all’emanazione del decreto, non controllavano Bankitalia, non potevano vendere le proprie quote e da esse ricevevano dividendi minimi ed indipendenti dagli introiti del signoraggio, che restavano nelle casse dello Stato. Con l’entrata in vigore del decreto Imu – Bankitalia le cose sono cambiate, naturalmente in peggio per gli italiani.
Il valore delle quote azionarie passa a 7,5 miliardi di euro. Questa ricapitalizzazione avviene a fronte delle riserve statutarie della Banca. Al 31.12.2012, il patrimonio netto (capitale+riserve) di Bankitalia ammontava a circa 23 miliardi di euro. Da un punto di vista sostanziale questo patrimonio è pubblico e appartiene al Tesoro, perché è stato accumulato grazie al potere di monopolio fornito dalla legge a chi emette moneta e non attraverso l’attività e gli investimenti dei soci, come avviene per una qualsiasi azienda privata, quindi ogni similitudine è fuori luogo.
Le quote sono rese trasferibili, si dice, al fine di permettere ai soci di rispettare un limite massimo del 3% per la quota di partecipazione. Essendo trasferibili, il loro valore non è più arbitrario ma determinato dal mercato. Semplificando, il valore delle quote di Bankitalia sarebbe il valore scontato dei dividendi previsti futuri.
Le quote riceveranno una remunerazione massima pari al 6% del loro (nuovo) valore nominale, portando il valore dei dividendi distribuiti ad un massimo di 450 milioni di euro (contro i 70 milioni di utile attribuiti nel 2012). Il 6% è un dividendo eccessivo per un investimento senza rischio. Molto più appropriati sarebbero 70 milioni, l’1% circa anziché il 6%. Si noti che anche 70 milioni di dividendi annuali sono un regalo alle banche (che hanno investito un capitale minimo un secolo e passa fa e che, soprattutto, non contribuiscono affatto a generare i rendimenti che vengono dal signoraggio).
Qualche professorone, con l’obiettivo di dare lezioni, sostiene che “l’operazione Bankitalia va vista come un’attività dinamica produttrice di ricchezza per effetto dei maggiori finanziamenti concedibili alle imprese, specie in questi periodi di forte necessità”.
Ci si dimentica di dire che la Bce tra il 2011 e il febbraio del 2012 ha prestato alle banche europee circa mille miliardi di euro al tasso agevolato dell’1%. Di questi, 250 miliardi sono finiti nelle casse delle banche italiane e con essi, le stesse, anziché promuovere una politica espansiva che avrebbe permesso un rilancio dell’economia finanziando famiglie e imprese, hanno ben pensato di comprare titoli del debito pubblico (BTp) per 163 miliardi di euro conseguendo lauti guadagni senza rischiare nulla.
Un altro aspetto che non viene citato, quando si parla di banche, è che la Banca d’Italia, alla fine degli anni ottanta, ha tentato di imporre alle banche un limite minimo tra capitale (soldi che dovrebbero tirar fuori i soci di tasca propria) e attivo patrimoniale. Il Comitato di Basilea ha cercato di alzare tale limite ad un misero 3% (la gran parte degli analisti sostiene che tale limite dovrebbe essere almeno del 10%), ma come al solito, grazie alle forti pressioni delle grandi banche, tutto è stato rinviato al 2017. Insomma, quando alle banche si chiede di fare la loro parte e mettere soldi di tasca propria, i banchieri hanno sempre qualcosa da ridire e soprattutto impegni da spostare. Preferiscono lavorare senza rischiare nulla, esclusivamente con i soldi degli altri e, magari, con qualche regalone concesso dal governo per patrimonializzarsi e fare affari.
Barbara Lezzi
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