La scelta del ministero delle Politiche Agricole, di concerto con il dicastero dello Sviluppo economico, di introdurre l’indicazione obbligatoria dell’origine delle materie prime per pasta e riso non ha solamente creato una spaccatura all’interno della filiera ma si è presto rivelata una scelta meramente propagandistica con pochi, se non nulli, effetti concreti.
Per come è stata portata avanti la “trattativa” con Bruxelles, dove abbiamo assistito più a prese di posizione ottuse piuttosto che ad una concertazione alla luce delle prime obiezioni ricevute, siamo inevitabilmente esposti a procedure (c.d. EU-Pilot), anticamera delle sanzioni comunitarie, come hanno già sollevato esperti in diritto alimentare quali Dario Dongo.
Più che ripercorrere la giusta strada del decreto sull’etichettatura del latte e dei latticini, questo provvedimento sembra creare soltanto mere illusioni di informazione nel consumatore che sarà spinto ad addossare la colpa di un eventuale bocciatura alla Comunità Europea. C’è, infatti, chi come la testata online Il Fatto Alimentare lo ha già ribattezzato il “gran pasticcio all’italiana”.
L’etichetta, infatti, rischia di essere assolutamente ingannevole perché nessuna verifica può garantire che il grano presente nel pacco di pasta che compriamo sia italiano al 50% o all’1%. Il limite della percentuale inserita dal Governo, quindi, non fa altro che raggirare i consumatori. Sarebbe stata più onesta una generica dicitura “miscele di grani Ue/non Ue” piuttosto che illudere tutti dell’acquisto di un prodotto in gran parte tricolore ma che, nei fatti, rischia di non esserlo.